CASERTA – Domani all’Aulario, alle 15:30, è di scena CUS Caserta-Casilinum, partita di cartello della settima giornata del girone A del campionato di Serie C2 Campania. Abbiamo incontrato Daniele Ventimiglia, grande ex della sfida, che in questa chiacchierata ha toccato diversi temi, non solo strettamente legati alla gara.
Daniele, domani all’Aulario si affrontano CUS Caserta e Casilinum. Come arriva la tua squadra a questo appuntamento e come giudichi il percorso fatto fin qui?
“La squadra sta lavorando bene, i ragazzi si stanno abituando alla mia metodologia di lavoro. Il percorso fin qui lo giudico buono, ma essendo io un perfezionista, a livello personale e tecnico mi aspetto sempre tanto dai ragazzi. Devo dire che nell’ultima partita contro il Borgo Five mi hanno piacevolmente sorpreso, riscattando il KO di Calvi. La squadra sulla carta non è inferiore a nessuno, però difetta ancora di mentalità, è soggetta ai cali di tensione, e domani abbiamo una di quelle partite in cui è assolutamente vietato abbassare la guardia.”
Come può incidere un allenatore sulla mentalità?
“Io vado controcorrente rispetto a quella linea di pensiero secondo cui quando la squadra vince sono bravi i giocatori e quando perde la responsabilità è del solo allenatore. Questo modo di vedere le cose non corrisponde al vero. Io ritengo che l’allenatore è determinante durante la settimana, perché lui prepara la squadra alla sfida del sabato. Ma il sabato, una volta iniziata la partita, è il giocatore responsabile di quello che combina in campo. L’allenatore, ripeto, va giudicato innanzitutto per come lavora in settimana e poi, in minor parte, per come gestisce la partita; al contrario, un giocatore va sì giudicato per come si allena, ma soprattutto per come esegue in campo le situazioni provate in allenamento: l’allenatore educa alle scelte, ma le scelte vengono fatte dai giocatori. La responsabilità è condivisa, ma per buona parte è sempre dei giocatori. Attenzione: non dico questo per deresponsabilizzarmi, ma per responsabilizzare positivamente i ragazzi, che spesso sono inclini all’alibi (condizioni del campo, avversari, tifosi, arbitro…). Un giocatore bravo deve tenere in considerazione tutti questi aspetti se vuole fare la differenza, perciò negli allenamenti cerco di ricreare delle situazioni il più possibile fedeli a quelle da competizione, per costruire in allenamento la giusta mentalità da spendere poi in partita.”
Spesso si dice che quello dell’allenatore è il mestiere più difficile del mondo, e le tue parole sembrano confermarlo…
“Assolutamente. L’allenatore è il nemico del giocatore. Il giocatore vuole giocare, punto. L’allenatore è chiamato a decidere quelli che possono essere i giocatori più funzionali alla proposta di gioco da attuare o alle caratteristiche dell’avversario. Le scelte non saranno mai comprese da un giocatore, perché il giocatore non riesce mai ad immedesimarsi nella guida, perché pensa innanzitutto a se stesso. Questa consapevolezza la si raggiunge solo quando valichi la staccionata, cioè quando passi dall’essere giocatore all’essere allenatore. Lì comprendi tante dinamiche che prima ignoravi.”
A questo punto è naturale chiederti: una volta che sei diventato allenatore, ti è mai capitato di ripensare a qualche situazione in cui, da giocatore, avevi dato torto al tuo allenatore e che invece adesso hai compreso che avevi effettivamente ragionato “solo” da giocatore?
“Certo, come no. Quando giocavo mi sentivo il giocatore più forte della squadra, ma non per presunzione, quanto per autostima e per tenere sempre viva la motivazione a migliorarmi. Solo dopo ho compreso quanto sia difficile gestire 12-13 teste con personalità e qualità diverse. Da giocatore pensi di essere sempre perfetto, una percezione ovviamente irreale che ti devia dall’approccio corretto, che dovrebbe prevedere innanzitutto l’autoanalisi, come si fa all’estero: la valutazione deve essere prima ‘interna’ e poi contestuale, mentre in Italia si liquida il tutto scaricando le responsabilità su fattori esterni oppure prendendosela con l’allenatore, che, per me, non può incidere oltre il 20-30%, anche perché gli aspetti fondamentali nel calcio a cinque sono quattro, in questo preciso ordine: psicologico, fisico, tecnico e tattico. Come vedi, il tecnico e il tattico sono gli ultimi aspetti: senza le prime due componenti non si va da nessuna parte. In uno sport dal margine di errore elevatissimo, la responsabilità individuale incide tanto, per questo cerco di avere con me giocatori che abbiano lo spirito e l’agonismo giusti, e che possano trasmettere questo bagaglio ai compagni che magari ne sono carenti.”
Chi sono i tuoi riferimenti tra gli allenatori di calcio a 5?
“Ce ne sono diversi. Massimiliano Bellarte, l’allenatore della Nazionale; Miki e Manolo, allenatori spagnoli che hanno vinto di tutto qui in Italia, allenatori a cui mi ispiro tanto da un punto di vista metodologico, prendendo molto da incontri di approfondimento tecnico avuti con loro: mi hanno aperto un mondo. Senza dimenticare Lorenzo Nitti, il tecnico del Matera. In generale la mia idea è quella di dominare il gioco, che è una delle cose più complicate: richiede da parte di tutti un certo tipo di responsabilità, torniamo sempre lì…. Io non ho mai visto una squadra che gioca male ottenere sempre il risultato positivo: può andare bene una volta, due volte; ma se la performance non è medio alta sul lungo periodo non arrivi da nessuna parte. La sicurezza del successo è impossibile, ma bisogna fare in modo di aumentarele le probabilità di successo, su questo sì che abbiamo potere: voglio che i ragazzi vincano meritando di vincere, non che le loro vittorie siano frutto del caso. Ripeto, si gioca per creare quante più occasioni è possibile. Ad esempio con il Borgo abbiamo creato 34 occasioni da rete ma segnato solo 7 gol, ovvero meno del 25% delle occasioni nitide create: e se avessimo costruito meno di 34 occasioni avremmo messo a segno ugualmente 7 gol? Molto probabilmente no. Quindi noi, pur avendo vinto, siamo consapevoli di non aver fatto benissimo. Alla fine ha ragione chi la butta dentro, questa è una regola incontestabile, sebbene non scritta.”
Questo modo di vedere le cose ricorda un po’ la visione (estrema) di Zeman: “I troppi gol subiti? Pensassero a concretizzare tutte le palle gol che creiamo davanti“.
“D’accordo, ma l’equilibrio è importante. Il fatto di voler creare tanto non vuol dire non difendere: è l’altezza della pressione portata sul portatore di palla a differire, si difende in avanti ma si difende. I giocatori diventano i primi difensori quando si perde palla, a cominciare dal pivot; così come i primi attaccanti sono i difensori che portano palla; è la gestione della transizione, verso la propria porta o verso la porta avversaria, a fare la differenza.”
Prima, tra gli alibi a cui troppo spesso si aggrappano i giocatori, hai elencato il direttore di gara. Come giudichi la classe arbitrale di questa categoria, dal momento che in ogni partita vengono letteralmente sommersi di critiche (chiamiamole così)?
“Diciamo che l’errore che si fa è inviare sui campi ragazzi che non hanno esperienza non a livello tecnico bensì a livello contestuale, che è molto diverso. Un arbitro può essere preparatissimo sul regolamento, eppure essere deficitario nell’interpretazione del gioco e di tutto il contorno. Bisogna comprendere che le società non svolgono l’attività federale per mero divertimento, perché comunque investono risorse e si aspettano arbitraggi all’altezza della situazione. L’AIA dovrebbe investire maggiormente nella formazione, magari inviando sui campi dei commissari di gara deputati proprio alla valutazione dell’operato dell’arbitro: in questo modo i direttori di gara potrebbero essere aiutati a non ripetere gli stessi errori, invece che essere abbandonati al loro destino. Io parlo ovviamente di errori, perché ci tengo a precisare che non ho mai visto un arbitraggio in malafede. Mai. Purtroppo siamo carenti dal punto di vista della cultura sportiva e non comprendiamo che l’arbitro è un essere umano che sbaglia come un giocatore, un allenatore, un presidente.”
Quello che dici è da condividere e sottoscrivere. Ma tu, Daniele, come ti comporti in partita davanti a una decisione controversa? Riesci a mantenere questo equilibrio?
“Dipende dal momento della gara. Io sono un allenatore intenso, partecipativo, ci può stare quindi che posso avere un atteggiamento un filino aggressivo, ma mai maleducato o irrispettoso. Posso magari pronunciare parole forti con un tono di voce alto, questo sì, ma sempre nei limiti del consentito, tanto è vero che non sono stato mai espulso. Inoltre, se l’arbitro è collaborativo e mi spiega la sua decisione, io mi tranquillizzo e finisce tutto lì. Credo che la bravura dell’arbitro sia soprattutto questa: differenziare tra richiamo/protesta e offesa e non essere permaloso. Non è facile, chiaramente.”
L’ultima domanda è a cavallo tra il passato e l’immediato futuro: tu hai vestito la maglia del CUS Caserta sia da giocatore che da allenatore: che ricordo hai di quelle esperienze? E poi: che partita vedremo domani all’Aulario e cosa temi della squadra di Barbato?
“Io ho cominciato il calcio a 5 con il CUS, a 18 anni, con Michele Pinto come presidente e Guido Ventimiglia come allenatore ed ero reduce dal calcio a 11. La maggior parte della mia esperienza calcettistica si è formata indossando la maglia del CUS, dalla Serie D fino alla B: è stata l’esperienza a livello umano e tecnico più importante che ho vissuto. Ho instaurato rapporti bellissimi con le persone, rapporti che conservo tuttora. Il CUS è stato una vera e propria scuola di vita, un ambiente a cui sono molto legato, ed è chiaro che domani sarà per me una partita diversa dalle altre. Questa percezione vorrei trasmetterla ai ragazzi per fare in modo che possano compiere, nella maniera più corretta possibile, la performance migliore possibile: ovviamente sarà poi il campo a parlare.
Il CUS, nonostante le poche risorse, ha sempre fatto bene perché si è sempre fidato prima degli uomini e poi degli atleti, una scelta orientata sul lungo termine che ha portato i suoi frutti: con il CUS molti gicatori che non erano blasonati si sono fatti un nome, per poi fare bene in altri contesti. A testimoninaza che la formazione che ti garantisce il CUS te la porti dietro, anche a livello umano, e ti permette di essere un esempio positivo in ogni realtà in cui vai a misurarti.
Per quanto riguarda la partita di domani, il CUS fa del gruppo, della coesione, del senso di appartenenza il proprio marchio di fabbrica. Sarà complicato affrontarlo. Dal punto di vista mentale dovremo essere preparati a una squadra che non per caso è prima in classifica, dunque rispetto massimo; ma allo stesso tempo dobbiamo presentarci all’Aulario consapevoli dei nostri mezzi e domani faremo di tutto per vincere. Mi aspetto una grandissima partita, di una categoria superiore, una partita sana, corretta e (spero) ben arbitrata, tra squadre e società sane che praticano questo sport con agonismo funzionale al gioco, senza mai andare oltre”.
A cura di Luigi Fattore
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